Massimiliano Fuksas
Oscillazioni e sconfinamenti

Autore/Author: Ruggero Lenci


Ruggero Lenci

MASSIMILIANO FUKSAS:
Espressioni e contenuti in tensione

Dove va l’architettura secondo Massimiliano Fuksas? Nella città priva di valori statici e insostituibili tradizioni, verso la scoperta di nuove agilità, nuove articolazioni del progetto nei rapporti tra contenuto ed espressione. E’ per questo che il suo genio compositivo interessa gli architetti del nostro tempo e si impone a livello internazionale sia per il successo conseguito nei sempre più frequenti concorsi vinti che per lo scavo dissonante e antiaccademico documentato dalle numerose realizzazioni le quali, su oltre trecento progetti, sono ormai più di sessanta.
Le sue opere costruite sono localizzate in Italia e in Francia ed inoltre vi sono cantieri aperti e progetti in corso in Germania e in Austria. Pur avendo realizzato molto in Italia destando profonda curiosità ed interesse sia tra gli architetti nazionali ed esteri che, negli ultimi anni, tra gli amministratori di varie città d’oltralpe, oggi si può dire che le sue opere più emblematiche siano state erette in Francia. Tra queste, tre sono le più rappresentative: il Centro Culturale e Mediateca a Rezé, l’Arts Centre dell’Università Michel de Montaigne a Bordeaux e l’Ilôt Candie-Saint-Bernard a Parigi. In esse è riscontrabile una calibrata sintesi degli elementi compositivi già presenti nel suo precedente repertorio espressivo, che scaturisce da un’attenta riduzione di quei segni architettonici che ne hanno caratterizzato la prima stagione romana. Ma queste tre opere sono state già superate, sia sul piano del contenuto che su quello dell’espressione, da diversi progetti alcuni dei quali dovrebbero vedere presto realizzazione e di cui i più rappresentativi sono: il Centre Hanséatique ad Amburgo, la Camera di Commercio e dell’Industria di Nîmes-Uzès-Le Vigan e la Place des Nations a Ginevra.
Per progettare, il suo metodo è fare dell’altro, tutto fuorché mettersi al tavolo da disegno seduti di fronte al foglio bianco: “uscire dall’architettura, far parlare la gente comune, gli ingegneri, i giornalisti, e ascoltare. Pensieri, parole, rumori, musiche, per far emergere una voce dal di dentro, giusta o sbagliata ancora non importa, ma vera e assolutamente necessaria per dare avvio ad un processo di reiterazione e di successive approssimazioni che sarebbe assurdo sterilizzare sin dalla nascita” con una soluzione quasi giusta.
Da questo superamento della paura di sbagliare hanno origine le grandi e tumultuose tele che caratterizzano la fase iniziale dell’iter progettuale dell’architetto, costituite da un’esplosione di colori, in opposizione ad un approccio ideativo miope, fatto sin da subito al pennino, chiusi ermeticamente nel proprio ego, nella propria ineludibile incomunicabilità. La sua è invece un’idea espressa al pennello, tante volte adoperato quando era da Giorgio De Chirico come assistente nell’atelier dell’artista, e che ha continuato ad usare nei suoi studi di architettura di Roma, Parigi e Salisburgo in modo dirompente e dissonante, sempre teso a far affiorare nuove idee, a sé stesso e ai suoi collaboratori. Questo nobile sfogo cromatico è, per sua natura, ricco di errori nella descrizione di un’idea e tale imprecisione iniziale è un bene prezioso perché lascia intravedere anche ciò che non c’è, contribuendo a creare un’atmosfera di piacevole collaborazione, una sorta di workshop per ripartire ogni volta azzerando, con una nuova tela dipinta con veemenza e talvolta sconfinamenti, le acquisite consuetudini.
La sua avventura ha inizio il 9 gennaio 1944, un anno e mezzo prima del fatidico volo dell’Enola Gay su Hiroshima, quando nasce a Roma dal padre lituano venuto in Italia per studiare medicina e dalla madre romana studentessa di filosofia, con sangue materno metà tedesco e metà francese. Quando compie sette anni la perdita del padre, morto di trombosi cerebrale, lo segna profondamente iniziandolo precocemente alla ricerca di una patria, oggi ritrovata, che non coincide con i confini di una nazione ma che si estende anche oltre l’Europa. La nonna materna, nata a Strasburgo ma residente in Austria, nel 1951 lo vuole con sé a Graz città nella quale il piccolo Massimiliano vive per tre anni prima di far ritorno a Roma, dove riporterà le esperienze della prima formazione mitteleuropea.
Durante gli anni del liceo è più attratto dalle dinamiche del cambiamento e delle mutazioni della cultura italiana espresse dal cinema di Fellini, che da quei tratti più statici dell’architettura del neorealismo romano emergenti nei primi quartieri popolari del dopoguerra. Viene seguito da grandi maestri quali Pier Paolo Pasolini, Alberto Asor Rosa e Giorgio Caproni i quali fungono da stimolo per il suo sviluppo artistico.
L’incontro con Giorgio Castelfranco, storico dell’arte e critico, collezionista di disegni antichi e libri d’arte, scopritore di De Chirico e Savinio, accende in Fuksas l’interesse alla pittura. E’ tramite Castelfranco che avrà il suo primo contatto con l’architettura dipinta conoscendo il grande maestro Giorgio De Chirico presso il cui studio di Piazza di Spagna lavorerà per quasi un anno. Stimolato da questo e da altri incontri con artisti e architetti romani, Massimiliano inizia un periodo di attento girovagare per la città eterna, alla scoperta delle architetture della Roma Barocca, dei meccanismi degli impianti urbani di Papa Sisto V, dei capolavori di Bramante e di Michelangelo. Saranno proprio questi itinerari che lo spingeranno a compiere la scelta di iscriversi alla Facoltà di Architettura e non a quella altrettanto amata di Filosofia.
La Facoltà romana di Architettura a Valle Giulia, nel 1964 vive un momento di grande fermento che, a seguito di scioperi studenteschi contro i professori reazionari ancora sovraccarichi di eclettismi e neoclassicismi, produce un’ondata di rinnovamento con l’arrivo di Bruno Zevi e Luigi Piccinato da Venezia e di Ludovico Quaroni da Firenze. Massimiliano ben presto si accorge che i migliori docenti, pur profondendo nello studente un forte stimolo all’apprendimento, come avviene nelle lezioni di storia dell’architettura contemporanea di Zevi o nel corso di composizione di Quaroni, non riescono ad insegnare il mestiere al discente se questo non si è dotato di un proprio motore interno per l’apprendimento. Decide quindi di non affidarsi totalmente al solo insegnamento della storia o all’elaborazione progettuale, mantenendo parallelamente il timone del proprio percorso da autodidatta. Oltre a dare esami, si autoprescrive il ridisegno delle piante, sezioni e prospetti degli edifici più importanti dell’ ’800 e del ’900 in Italia, lo studio dei meccanismi delle proporzioni e dei sistemi geometrici e il grand tour delle capitali europee per la conoscenza diretta e per gli stages.
Nel 1965 è, a più riprese, per tre mesi a Londra dagli Archigram dove si respira un’atmosfera rarefatta nella quale il progetto di architettura è una forma di sintesi liberatoria, tutto basato sulla rappresentazione cartacea, di un’esperienza comune di cross fertilization, in cui le idee sono proprietà del gruppo più che delle singole teste.
Nel 1966 è in Danimarca da Jørn Utzon, l’allievo di Alvar Aalto che in quegli anni sta completando la realizzazione dell’Opera House di Sidney. Ne assorbe il metodo di lavoro basato nel concepire sin dall’inizio l’architettura come organismo tridimensionale, fatto che lo porterà in seguito a ricercare uno spazio generato da gusci e membrane: le scocche.
Durante il ‘68 vive, ancora da studente, il periodo della contestazione studentesca e, l’anno dopo a 23 anni, si laurea con Ludovico Quaroni. La difficoltà ad allontanarsi da quel luogo magnetico, ancora così ricco di stimoli e di sussulti culturali lo porta, nel 1970, a fare ritorno nella Facoltà di Architettura per svolgere attività didattica e di ricerca con Arnaldo Bruschi presso l’Istituto di Storia. Vi rimane per otto anni durante i quali si oppone esplicitamente alle idee della cosiddetta scuola romana, tendenza in quegli anni totalmente pervasa da una sintassi troppo rigida e inavvertitamente provinciale. Alla fine lascia l’università pur non andando via da Roma. Ben presto si accorge, e ne soffre, di un’avversione da parte della cultura architettonica locale nei suoi confronti che ne critica profondamente la feconda e complessa opera, svolta in quegli anni insieme ad Anna Maria Sacconi e testimoniata da numerose realizzazioni nei comuni di Sassocorvaro, Paliano, Orvieto, Anagni, Serrone, Acuto, Cassino, Tarquinia. Il suo motto: un architetto deve costruire e l’architettura è un’arte lo porta a sostenere che vi sia bisogno di contaminazione tra questa meravigliosa arte e la società, non tirandosi indietro di fronte a tale compito democratico, attratto com’è dalla schietta messa in atto di idee finalizzate alla ricerca e all’indagine architettonica. Nel 1982, quando ne ha abbastanza dell’eccessivo provincialismo di un dibattito architettonico in quegli anni in Italia ancora tutto rivolto al compiacimento dell’architettura solo disegnata, ecco che l’Architecture d’Aujourd’hui pubblica il suo lavoro come cover story del numero di Settembre. Il mese dopo viene invitato a partecipare alla Biennale di Architettura di Parigi e ad esibire i suoi lavori insieme a quelli di William Alsop, Jean Nouvel, Rem Koolhaas, Toyo Ito, e dello studio Arquitectonica. Da allora in Massimiliano avviene un significativo cambiamento di contatti umani e di esperienze progettuali. In Francia il suo lavoro desta curiosità per la ricchezza espressiva che lo caratterizza, tutto basato sulla poetica dell’elenco degli elementi compositivi, delle funzioni e dei materiali, su quella del non finito, sull’allegoria, sul simbolismo, sulla mitologia architettonica e sulla ricerca dell’effetto città. Ed ecco che arrivano i primi inviti a concorsi, le partecipazioni a giurie internazionali, tra cui quella per la biblioteca di Parigi, gli incarichi, le prime realizzazioni, i lavori a più mani e poi i workshops, le lectures, i grandi concorsi vinti, il successo della critica architettonica internazionale, le offerte di insegnamento da prestigiose università europee e americane tra cui figurano la scuola speciale di Architettura Paul Virilio di Stoccarda, la Columbia University di New York e l’Accademia di Vienna dove attualmente è direttore di atelier.
Ma procediamo con ordine per ricostruire le tappe principali del percorso di un architetto la cui regola guida è quella di infrangere il conformismo attraverso il coraggioso manifesto della propria opera, che gli impone di correre frequenti rischi piuttosto che cedere a sterili forme di pseudo razionalismo sempre troppo interessate alla celebrazione del potere fine a sé stesso.

IL PERIODO ITALIANO
Nel 1969 Fuksas fonda con Anna Maria Sacconi lo studio Granma, (dal nome della nave di Che Guevara e Fidel Castro partita per Cuba) studio che rimarrà operativo fino al 1988. La prima vera occasione di lavoro, se si esclude un padiglione per la Fiera di Roma, è del 1970 quando un dirigente del Ministero della Pubblica Istruzione gli affida l’incarico per il progetto del Palazzetto dello Sport di Sassocorvaro in provincia di Pesaro, paese dove è presente un “maschio” attribuito a Francesco di Giorgio Martini. Il progetto, disegnato in tempi brevissimi, è frutto della collaborazione con il pittore Aldo Turchiaro il quale disegna in altorilievo sulle pareti di c.a. impressioni naturalistiche dedicate al Cile e a Salvador Allende. Nell’edificio già si respira ciò che rappresenterà poi il motivo conduttore del suo primo periodo, ovvero la combinazione di acquisizioni linguistiche poco compatibili tra loro, segnatamente: gli archi di testata, vere e proprie finestre circolari annegate nel terreno, elementi di matrice storicistica presenti in molte architetture di Louis Kahn e di Frank Lloyd Wright; gli imbotti trilitici sul prospetto a valle di derivazione brutalista usati da Paul Rudolph nei suoi progetti residenziali in Florida ed Alabama (1954-65) e da Ieoh Ming Pei nel National Center for Atmospheric Research a Boulder in Colorado (1961-67).
Tale prospetto, ancorato al suolo ed in continuità materica con un generoso crepidoma reso volumetrico e funzionalizzato con i servizi della palestra, assume lo spessore plastico di un tempio moderno, vigoroso bastione e argine al tentativo interrotto di scivolamento tettonico del volume della palestra verso valle. Esso genera il passo delle travi inclinate di copertura le quali, seguendo l’andamento del terreno, guadagnano quota man mano che vi si allontanano e, così facendo, dinamicizzano lo spazio interno riducendo, al tempo stesso, l’incombenza del volume a pianta rettangolare nel contesto, costituito dalla campagna e dal minuto tessuto edilizio di Sassocorvaro.
Nel 1973 la cooperativa Esperanza 19 di Roma gli affida l’incarico per la progettazione di un edificio di 12 appartamenti da realizzarsi in un’area inserita nel Piano di Zona di Casal dei Pazzi. Il progetto è costituito da due unità ad “L” distribuite autonomamente e accostate sulle testate così da formare una pianta a “C”. I volumi curvi che fuoriescono dagli angoli concavi e che contengono i corpi scala sono parti di cilindri incastonati nel volume principale dal quale spuntano anche in copertura.
Attraverso l’applicazione combinatoria di codici linguistici contemporanei quali il neoplasticismo e il neobrutalismo, sia pur rimeditati in chiave romana, l’edificio riesce elegantemente a mostrare all’esterno l’articolazione tipologica dei quattro duplex e degli otto simplex di cui è composto. Le due testate, dimensionate sulle proporzioni del rettangolo aureo, ne costituiscono i prospetti principali diventando il palinsesto di un film-collage che narra la rivisitazione di un periodo dell’architettura contemporanea imperneato su Le Corbusier con possibili riletture della villa a Garches, del Palazzo del Governatore di Chandigarh, della Tourette.
Nel 1974, con il restauro del Monte Frumentario ad Anagni, edificio del XIII secolo restaurato nel 1698 con funzioni di deposito del grano e di oggetti dati in pegno, inizia un periodo di attività localizzato prevalentemente in alcuni territori della provincia di Frosinone. E’ del 1977 il progetto del nuovo Cimitero di Paliano che si configura come ampliamento della vecchia struttura novecentesca con pianta a croce ed absidi anche sul transetto. Il progetto si preoccupa, in prima istanza, di delimitare un’area di intervento e lo fa prima proiettando a terra la sagoma dell’ombra virtuale dell’esistente cimitero e poi riempiendola con gli spazi e i volumi richiesti per l’espansione: il nuovo nasce come ombra del vecchio. L’articolazione interna totalmente autonoma dei volumi, così disposti perché continuamente contestata dall’altra metà della conoscenza, è tesa alla ricerca di un’idea di città medioevale.
Nello stesso anno lo studio Granma progetta un parco in località Fontana del Diavolo ancora a Paliano nel quale sul bordo a valle del percorso pedonale principale collocato su un terreno in lieve pendio, vengono giustapposte piazzole di sosta prevalentemente conformate sul modello del rudere romano, delimitate da volumi bizzarri realizzati in pietra locale che palesano il riferimento fiabesco al Parco dei Mostri creato da Vicino Orsini a Bomarzo nel 1552-80.
E’ sempre del 1977 l’inizio della progettazione della Scuola materna a Tarquinia nella quale la tentazione di inserire tra le aule scolastiche alcuni degli elementi archetipici dell’architettura, guida la mano dei progettisti regolandone la metrica compositiva. Vengono inseriti la galleria, il crepidoma, il nuraghe, il totem, una scala memore dell’osservatorio di Jaipur, il labirinto.
Nella scuola, ai bambini rimane ben poco da cambiare perché gli adulti, i progettisti, che vogliono continuare a giocare, già hanno fatto tutto: murales in bassorilevo nel cemento, finestre staccate dalle pareti, indiani che bollono in pentola, prospettive alterate e regnanti camuffati da cancello. “Fra trent’anni quest’asilo nido forse diventerà un carcerino modello per chi si rifiuta di invecchiare.”
Nel progetto del Cimitero di Acuto del 1978 sono presenti tracce della composizione pittorica metafisica di De Chirico, ma l’assenza della scomposizione antiprospettica spaziale produce un impianto architettonico statico.
Nel 1979, con la Palestra di Paliano, Fuksas firma la propria uscita dalla Facoltà di Architettura di Roma. Essa segue di poco quella di Bruno Zevi ed è motivata da una considerazione sulla crisi dell’insegnamento della disciplina e sulla condizione del docente in quegli anni “sempre più sacrificato da una perdita immane di energie progettuali e da rinunce intellettuali necessarie a mantenere in funzione la stereotipata macchina troppo finalizzata alla crescita accademica”.
In quel periodo ha inizio l’età di un affinamento della ricerca progettuale che va ad indagare territori dell’architettura ancora poco esplorati e, per certi versi, precursori del decostruttivismo. La palestra di Paliano rappresenta per i componenti del suo studio un grido liberatorio dall’accademia, dallo storicismo e dal razionalismo in essa propugnati, correnti che poi tendono ad essere la stessa cosa, un’occasione di dimensioni contenute progettata in tempi strettissimi, che diventa un concentrato di idee troppo urgenti per non essere dette. Dal progetto del Centro Civico di Derby di James Stirling derivano la facciata della casetta inclinata contenuta nella piazza a ferro di cavallo e la trasparenza del volume dell’edificio. La superficie fustellata e ruotata della palestra è giustificata dalla necessità di dotare il prospetto vetrato di una parete schermo ed, al tempo stesso, sostenere la rampa che, come nel Pompidou Center, taglia trasversalmente l’edificio e collega con la copertura. Gli elementi di questo progetto, con la rampa che passando nella parete schermo di beton-brut supera la forte pendenza esistente tra la strada sottostante e il giardino soprastante prolungato come piazza nella copertura della palestra, rimandano direttamente a Le Corbusier. Questa poetica qui assume i toni del racconto di una mitologia del reale, nella quale il nuovo Ulisse dimostra il proprio valore nel compimento dell’atto eroico consumato all’interno di una comunità cittadina, dove il nuovo cavallo di Troia è stato alla fine accolto per restare e per stimolare una riflessione sul cedimento dei valori e degli equilibri basati su antiche e quasi mai aggiornate convinzioni. Per anni gli abitanti di Paliano, preoccupati, si sono recati al Comune spinti dal timore che la facciata della palestra cadesse. Un consigliere dell’opposizione chiese al sindaco di dare incarico a un tecnico per farla raddrizzare perché era certo che stesse scivolando. Com’era da aspettarsi, i giornali della provincia iniziarono a mostrare grande attenzione e curiosità per questo edificio complessivamente giudicato inutile finché, nel 1985, la palestra venne inaugurata trasformando i timori in occasioni di riflessione. Se ne parlava, spesso male, ma se ne parlava e non si poté tacere sui costi di costruzione straordinariamente contenuti. Ciò piacque ai comuni limitrofi della provincia, tant’è che l’architettura di Fuksas iniziò a diventare un’architettura firmata a costi ragionevoli.
Nel 1979 ha inizio il progetto del Palazzetto dello Sport di Anagni. In esso si prosegue la già avviata sperimentazione del distacco dai codici geometrici e linguistici direttamente derivanti da Monge: un ponte di Roma, il Ponte Cestio, è visto sia in prospetto che in pianta. I fornici del ponte diventano sia facciata che incornicia la città, che esedre in pianta, avvolgendo i volumi della grande aula sportiva e della piscina verso monte. Sono anche presenti, ma ribaltati, alcuni elementi ed una metrica progettuale già pensati per il progetto di concorso del Centro Direzionale di Firenze. I corpi paralleli di quel progetto qui diventano le strutture verticali in ferro che marcano la facciata. Il ricercato rapporto con la storia si traduce nella narrazione di una città appartenente alla tradizione contenuta all’interno di una città metabolista, con un metodo compositivo derivato dalle architetture degli Archigram: il riferimento alla Walking City del 1963 e alla Plug-In City del 1964 viene spontaneo. Le strutture verticali in vista che portano le travi di copertura, si mostrano come supporto tecnologico fisso di una nuova Plug-In City nella quale la città è già stata inserita.
In questo progetto si sperimenta un metodo ideativo che affida all’immagine visiva, ovvero ad un pensiero che si traduce in immagine, la fase aurorale e l’atmosfera di ogni progetto per avviare un processo che poi verrà sviluppato razionalmente.
Nel 1980 la Cooperativa Ernica incarica lo studio Granma della progettazione di 54 alloggi ad Anagni. E’ soprattutto l’andamento altimetrico del terreno a determinare la conformazione e dislocazione del costruito: un arco di ellisse ad andamento scalettato a monte che traguarda un edificio in linea posto a valle tra i due fuochi. Nel centro è contenuto un ampio spazio verde fortemente inclinato segnato radialmente dagli scalettamenti dell’ellisse. Il progetto si configura come la combinazione tra un linguaggio di matrice razionalista, con il quale si struttura il sistema tipologico, e una morfologia espressionista a cui appartiene il sistema planimetrico. La presenza nei prospetti che guardano verso valle di una superficie a forte connotazione sintattica contenente i loggiati ed al primo livello i volumi dei saloni, è in sintonia con l’esposizione dell’edificio. Gli alloggi seguono un impianto molto rigoroso: un grande simplex a piano terra sormontato da due duplex con terrazzi di copertura privati e provvisti di soffitta. Quest’ultimo spazio marca la facciata a monte con ampie bucature le quali, combinandosi con quelle dei vani sottostanti, danno luogo ad una finestra crociata di memoria provenzale, anche se capovolta.
A Serrone, comune sulla via Prenestina, nel progetto del 1980 per una Delegazione comunale si sovrappongono diverse suggestioni architettoniche, tutte regolate dall’idea di voler rappresentare, in un piccolo edificio, un’intera città: una facciata metafisica con archi e due rampe di scala; tre passerelle scoperte; un volume all’interno del quale vivono una casa cilindrica in tufo e una casa rettangolare in cemento armato, incastonate l’una nell’altra.
Il tema della casa nella casa, risolto in chiave razionalista da Ungers nel museo di architettura di Francoforte, assume qui i toni tipici della poetica combinatoria dei codici linguistici. Il piano terra del volume è accessibile solo dall’esterno, pur essendo visibile da tutti i livelli grazie all’asola centrale che taglia i solai e che in copertura è illuminata da un lucernario a due falde acute. Al primo piano il percorso che si affaccia sulla strada centrale è sdoppiato in due passerelle sin dall’esterno distribuendo gli uffici e attestandosi sulle due rampe di scale collocate sul prospetto ruotato di 33° fuori dall’edificio. Al secondo piano la passerella esterna è unica e, senza coprire quelle sottostanti, penetra il volume in corrispondenza dell’asola centrale in uno spazio che distribuisce due grandi ambienti rettangolari coperti a tetto. L’edificio manca di una scala interna e di un ascensore quindi, per passare da un piano all’altro bisogna uscire all’esterno e, se piove, ci si bagna. Perché non realizzare nell’asola centrale una scala e un ascensore?
Il progetto della Scuola elementare e media S. Giorgetto ad Anagni si sviluppa dal 1979 al 1988. Anche qui, come nelle case della cooperativa Ernica, la morfologia della composizione nasce dalla forma e pendenza dell’area. Sul lungo fronte a disposizione si progetta un organismo a sviluppo lineare lungo 250 metri con una forte caratterizzazione urbana, ben visibile dalla valle. La scuola diventa il surrogato di una piccola città posta su di una collina, con piazze, vicoli e case che si affacciano sulla strada, con la chiesa, i portici, il palazzo comunale, la porta della città ed, in fondo, il castello, ovvero la scuola media, cilindrica. Il complesso, che contiene oltre 50 aule, due auditorium, due biblioteche, un refettorio, è stato realizzato in due fasi: la scuola elementare costruita prima sulla base del progetto originario; la scuola media realizzata a distanza di tre anni sulla base di un nuovo progetto che ne modifica il volume da uno sviluppo lineare ad una struttura rotonda scorrevole su un percorso curvo. Tale forma nasce dalla volontà di operare una denuncia all’idea di tipologia perché quel volume cilindrico non si sa cosa possa contenere e nessuno si aspetterebbe che si tratti di una scuola. A riguardo Fuksas è convinto che “non esiste il tipo perché raramente gli edifici mantengono la stessa funzione: di solito le trasformazioni sono l’unica possibilità perché un’architettura continui ad esistere in quanto sé stessa”.
Un’altra convinzione riguarda il non finito, da cui è nata l’idea di interrompere, durante una visita in cantiere, il processo di finitura dell’edificio cilindrico: “abbiamo finito”, dirà Fuksas, “non la intonachiamo più”. Al suo interno, lo spazio compresso tra il pozzo di luce a sezione circolare e l’auditorium che contiene le due scale con rampe curve e i pianerottoli in comune, rimanda alle carceri d’invenzione piranesiane, producendo un effetto di straniamento dovuto alla conformazione labirintica di quei luoghi ed obbligando ragazzi e professori ad una riflessione su temi extra scolastici, legati all’orientamento, allo spazio, all’architettura.
L’incarico del progetto per la Scuola elementare di Civita Castellana del 1983 arriva a seguito della proposta avanzata da Fuksas ai sindaci di più comuni per la realizzazione di un museo della scultura all’aperto. L’idea dà i suoi frutti nella cittadina che ospita il famoso Duomo con facciata a tasselli marmorei cosmateschi, ma l’esigenza di realizzare una struttura scolastica per risolvere il problema della scarsezza di aule tramuta la proposta del museo nell’incarico della più necessaria scuola elementare. La rara opportunità di scegliere tra diverse aree è subito colta dagli architetti i quali scartano le prime due visitate, circondate da edifici di nuova edificazione, ed optano per la terza perché rimasti rapiti dalla magia del luogo, aperto alla vista del monte caro a Virgilio. Il terreno degradante verso un profondo vallone suggerisce di impostare il costruito sopra uno zoccolo basamentale bugnato in tufo alleggerito da archi, con il carattere di reperto, acquedotto o cittadella, in un luogo ricco di tombe rupestri etrusche, non lontano dai resti della città romana Falerii Novi, luogo di deportazione degli abitanti di Falerii Vetere nel 241 a.C. Impostata la fortificazione, la città-scuola vi sorge sopra, svettando dal basamento. Le aule si pongono in antitesi rispetto al segno planimetrico unitario che, con autorità, si occupa di orchestrare l’apertura visiva dei volumi verso il teatro naturale costituito dal monte Soratte. I volumi lineari delle aule vengono divaricati e all’interno del nucleo scolastico viene inserita la funzione comune, l’agora moderna che anche qui ci narra, con gli altri spazi e segni del progetto, della messa in atto di un tentativo di trasposizione in architettura di una mitologia credibile, riprodotta con ingredienti del nostro tempo.
Il necessario percorso intermedio si configura come una frattura del costruito, una curva di livello che avverte e anticipa ai bambini la misteriosa presenza del vallone e, al tempo stesso, fornisce indicazioni per futuri ampliamenti. I diversi materiali usati, il tufo, l’intonaco, il vetro, il metallo, rendono all’opera un voluto sapore di incompiuto, una gioiosa patina di raro reperto funzionante.
Nel 1983 ecco un nuovo incarico residenziale: il progetto di 24 alloggi a Paliano intitolato Grattacieli caduti in un’area molto panoramica a mezza costa che, come la palestra, si affaccia sulla valle. La conformazione allungata dell’organismo edilizio è obbligata. Questo si modella in modo decisamente simmetrico con un corpo centrale e ali laterali così da creare uno spazio concavo frontistante i volumi, destinato al gioco dei bambini. Tale simmetria rende però poco probabile l’aderenza del progetto al titolo di derivazione catastrofista perché un grattacielo crollato si strappa in più parti ma questo, cadendo, non si disporrà secondo una così unica legge geometrica. La parte centrale costituisce l’attacco a terra del grattacielo che termina superiormente con sei pilastri dai quali fuoriescono ancora i ferri dell’armatura. Forse la poetica alla quale l’architettura dirompente di Fuksas ci abitua, simulando come nel film The Day After l’architettura del giorno dopo è, oltre ad uno stile di vita, anche un modo per esorcizzare il fatidico evento: è utile a volte uscire dal sogno di benessere e di pace eterna nel quale viviamo grazie ad una benevola realtà per apprezzarla e contribuire a preservarla.
Ogni ala contiene tre simplex a cui si accede direttamente dal piano terra e tre coppie di duplex, collocate superiormente e servite da altrettante rampe di scale. Il blocco centrale contiene sei simplex, due per piano, distribuiti centralmente. I prospetti, solo apparentemente simmetrici, espongono una superficie fustellata che diventa al contempo parete/schermo ed elemento sintattico. Non la sintassi del razionalismo di Terragni o quella dei Five Architects, bensì moderna sovrapposizione degli ordini architettonici in un Colosseo abitativo nel quale, con il cemento armato, non ci si preoccupa più della consequenzialità Dorico-Ionico-Corinzio, ma di esprimere chiusura e apertura in relazione alla disposizione degli spazi dell’alloggio con più luce nei soggiorni e più riparo nelle camere da letto.
Come conseguenza del fatto che un braccio è più illuminato dell’altro, questo viene maggiormente, anche se quasi impercettibilmente, protetto dai raggi del sole. L’effetto globale è quello di un complesso dispositivo per la proiezione di diapositive in cui ogni telaino rappresenta un’immagine, una vita e una storia e queste possono essere inserite nello chassis centrale per essere proiettate in uno spettacolo multicolore di luci e immagini.
Come nella scuola per la stessa città, anche nell’ampliamento del Cimitero di Civita Castellana del 1985 è presente il segno unitario della città-recinto attrezzata e fortificata, che qui diventa muro ovale contenente i loculi, delimitante una porzione di territorio nella quale sono posizionati oggetti metafisici che narrano la storia dell’ultimo viaggio dell’uomo sulla terra. Il tracciato della ferrovia Roma-Viterbo passa proprio lì vicino e i progettisti lo sdoppiano creandone uno nuovo, simbolico, abbandonato, che attraversa la città e taglia in due la casa del guardiano (i servizi), passa accanto alla stazione (la Chiesa), al serbatoio (l’ossario), alla piazza coperta, per poi addentrarsi in un tunnel. La ferrovia abbandonata rimanda ancora a De Chirico e alla metafisica da cui Fuksas è spinto a sollevare da terra di sei metri tutte le costruzioni che diventano palafitte su pilotis. Questi oggetti riportano alla memoria macchine da guerra rinascimentali e immagini di campi di concentramento: l’ossario, oltre a rappresentare il serbatoio per riempire la cisterna della locomotiva a vapore in partenza per l’ultimo viaggio, è anche garitta per la vedetta, sempre pronta a sorvegliare che nessuno tenti la fuga. Ma in un cimitero chi ha bisogno di eludere un controllo? Le anime saranno libere di uscire dai propri loculi per passeggiare dentro o fuori del recinto, oppure anche lì vi sono controllati e controllori, dittatura o democrazia? Il simbolismo di Fuksas impone fantastiche e severe riflessioni.
Un sito di particolare suggestione: una collina che domina la città di origine etrusca posta sul bancone tufaceo, è il luogo destinato all’ampliamento del 1984 del Cimitero di Orvieto. Il progetto si occupa anche della sistemazione urbanistica della vasta zona con una proposta che prevede lo sviluppo del cimitero per soddisfare i bisogni dei prossimi cinquanta anni, del collegamento con il vecchio cimitero, del restauro della Selciata, (antica strada che conduce al lago di Bolsena) nonché del controllo dell’impatto ambientale. La parte realizzata è limitata al primo lotto, situato nella parte bassa della proposta complessiva. A differenza del piano/progetto generale, dove campeggia il grande segno circolare luogo di rotazioni e rivoluzioni celesti, la parte realizzata si caratterizza per la ricerca di una soluzione totalmente radicata al luogo: il progetto di un bastione articolato in tufo che, come il bancone in pietra sul quale sorge la vicina città dei vivi, qui funge da cinta protettiva della città dei morti. I bastioni non hanno un disegno planimetrico legato alle mura di una città ideale ma sono piuttosto dei grandi blocchi separati da profonde fessure che rimandano alla verticalità del bancone tufaceo di Orvieto, nelle quali si intravedono frequenti passerelle in ferro rivelatrici della presenza di un percorso di ronda. Il tufo è montato esternamente a secco così da risultare più arcaico, quasi naturale. Al suo interno il muro contiene i loculi.
Nel 1985 prende forma l’attuale progetto per la Nuova Sede Comunale di Cassino. E’ il primo progetto che lo studio di Fuksas affronta nel nucleo interno di un centro urbano rappresentando il primo vero incarico per un palazzo. Dove andare a cercare i riferimenti? Nello stesso anno si conclude la costruzione della sede londinese dei Lloyds di Richard Rogers suggellando, con il Beaubourg di Renzo Piano e dello stesso Rogers e con l’Hong Kong Bank di Norman Foster, la piena maturità dell’High Tech. Questo codice si configura come la traduzione nel mondo reale delle idee utopistiche legate alle città degli Archigram, alla città sopra la città di Yona Friedman, alle macrostrutture di Paolo Soleri, nonché ai modelli urbani dei metabolisti. Massimiliano avverte che questa non è occasione da sprecare perché qui si può incidere nella realtà della città in uno dei suoi luoghi più centrali. Tuttavia è conscio delle difficoltà che un’amministrazione centrista avrebbe interposto all’approvazione di un progetto di respiro internazionale. Da qui deriva l’idea di progettare un edificio che apparentemente non sorprende ma che si riserva di stuipire. L’edificio si configura planimetricamente come un corpo ad “L” attestato al corpo di fabbrica della vecchia sede andando ad occupare parte della lunga piazza cittadina. Sulla sommità dell’angolo svetta un volume turrito, mentre nello spazio concavo sono contenuti i volumi della biblioteca. Come a teatro, anche a Cassino, l’esigenza di formalità scenografica è assicurata da uno schema che presenta un davanti e un dietro, un sotto e un sopra, un’immagine compiuta e una incompiuta. I due lati esterni della “L” rappresentano il davanti. In essi viene inserito un colonnato alto cinque livelli con passo strutturale e diametri diversi, frontistante una parete vetrata strutturata in modo rigorosamente cartesiano che termina su un solaio sporgente. Il retro dell’edificio mostra una testata quasi totalmente cieca, dipinta di nero ad esaltare la sezione del volume, alla quale sono attestate le scale sorrette da lunghi pilastri tubolari in ferro, derivanti dalla lettura critica di un’architettura giapponese di Shinohara. Tali rampe, come un essere vivente, penetrano nel volume e vi fuoriescono liberamente. All’interno della “L” è contenuto il corpo a doppia altezza della biblioteca.
Il sopra è il luogo della sorpresa, tutta da scoprire perché poco visibile e quindi discreto turbamento della pace cittadina. Questa parte del progetto rappresenta la città vera, brulicante, costruita sopra i tetti degli edifici, ma anche la città dell’immaginario, la città in trasformazione nella quale, sotto i raggi diretti del sole, le facciate si staccano dagli edifici e si intarsiano come la zucca di Halloween.
Sarà il progetto non realizzato per sei depositi di autobus per l’Acotral a Roma del 1986, a segnare il passaggio dal periodo italiano a quello europeo. Si tratta di una pensilina generata da un’unica grande scocca che tocca terra da un lato, appoggiandosi su un esile puntone in ferro dall’altro. Essa può essere letta come una felice rimeditazione del Sainsbury Centre for the Visual Arts a Norwich di Norman Foster del 1974-78, a cui viene aggiunto slancio, asimmetria ed energia. Ma, a differenza di quel progetto, la componente High Tech viene stemperata a favore di un’accentuata tensione espressiva in chiave futurista.

IL PERIODO EUROPEO
Durante gli anni ‘80 Massimiliano, ormai uscito definitivamente dalla Facoltà di Architettura ma sempre esposto alle critiche dei censori italiani i quali, temendo il fenomeno Fuksas, lo liquidano come non Maverik, sposta gradatamente il proprio asse di interesse in Francia dove inizia, sin dalla Biennale di Parigi del 1982, una costante opera di attiva presenza critica e culturale nella vita della città, partecipando a conferenze, mostre, dibattiti e pubblicazioni su riviste di architettura. I lavori censurati nel paese natale, qui destano l’interesse di critici quali Patrice Goulet e di architetti come Claude Vasconi, Jean Nouvel, Francis Soler, Alain Sarfati, oltre ai componenti dell’Architecture-Studio ed altri.
Finalmente nel 1985 arrivano i primi incarichi esteri tra cui il progetto di case a schiera ed ateliers a Seuilly, Indre-et-Loire. La progettazione si rivelerà difficile in modo inversamente proporzionale alla dimensione dell’opera perché in quel contesto antico, carico di preesistenze accanto all’Abbazia di Seuilly, bisognava inserire un’architettura che fosse completamente omogenea al passato e, nello stesso tempo in grado di rappresentare un’idea odierna contenente il segno della contemporaneità. Il progetto sviluppato mantiene le coperture degli edifici esistenti sostituendone i volumi interni.
Nel 1986 Jacques Floch sindaco di Rezé, viene invitato a Roma dall’IFA, Istituto Francese per la diffusione dell’Architettura, per visitare una serie di opere contemporanee gravitanti nell’area romana tra cui la palestra di Paliano e il Palazzo dello Sport di Anagni. In seguito, nel 1987, Floch invita Fuksas a visitare la sua città. Insieme vanno a vedere l’esemplare lì realizzato dell’Unità di Abitazione di Le Corbusier e, nel ritorno alla sede comunale, Massimiliano rimane impressionato da un grande edificio concepito negli anni ‘60 in beton brut, quasi del tutto privo di finestre, inserito tra le case di periferia. Una chiesa abbandonata da anni, una scatola razionalista dove contenuto ed espressione non si corrispondono più e forse non si sono mai corrisposti. L’idea che nasce è quella di trasformarla in un Centro Culturale e Mediateca con annessa sala per esposizioni. Fuksas ne ottiene l’incarico.
Il progetto rispetta l’involucro esistente non intaccandone le superfici, anzi lo rivaluta nella propria funzione di contenitore aggiungendovi un nuovo volume con caratteristiche ancor più da container: una scatola nera inclinata, casualmente atterrata su quel sito, con le uniche aperture sulla parete che guarda verso l’edificio esistente. I due corpi sono collegati tra loro per mezzo di un volume basso contenente la piccola hall di ingresso. Nel nuovo volume ha luogo il centro espositivo che, come la scatola nera di un aereo, è ricco di informazioni da decodificare per ricostruire la storia di una catastrofe. Inserita nel contenitore esistente, la mediateca si configura come uno spazio totale e dinamico, in cui alle scale è demandato il compito di organizzare lo spazio interno: uno spazio aperto su sé stesso, senza muri, completamente permeabile alla luce, realizzato in ferro e vetro che simula la complessità della vita attuale e sottolinea la trasformazione funzionale della ex chiesa, oggi riconsacrata ad una nuova fede.
Contemporaneamente al progetto per Rezé Fuksas viene chiamato dal comune di Parigi per partecipare ad un concorso ad inviti per la progettazione di un tratto di 400 metri sul quale insisteva l’ex viadotto ferroviario del quartiere della Bastille. In tale area il programma chiedeva di inserire abitazioni, centri commerciali, gallerie, caffé ristorante, atelier, parcheggi, zone pedonali e aree verdi. Il concorso, elaborato insieme a Franco Zagari, dal titolo Promenade Plantée Bastille-Bois de Vincennes, anticipa un programma edilizio mirante alla realizzazione di un brano di città lineare ecologica. Il progetto presentato descrive un’immagine di città moderna legata alle preesistenze ma al contempo aperta verso il futuro. In posizione sollevata da terra, sopra la copertura dei nuovi edifici, viene collocata la promenade alberata: una citazione del tetto giardino ma anche del piano Obus di Le Corbusier. Il progetto simula una contro-forza di gravità che determina l’ascensione degli edifici i quali fuoriescono dal sottosuolo insieme al percorso alberato che, dalla quota stradale, passa in copertura. Questo progetto non vince ma piace a Lombardini, funzionario chiave dell’edilizia pubblica parigina, amante dell’architettura e coraggioso promotore dei progetti di Vasconi, Portzamparc, Architecture-Studio, il quale nel 1987 affida a Massimiliano l’incarico di occuparsi della ristrutturazione dell’Ilôt Candie-Saint-Bernard, un settore della Bastille, uno dei quartieri più popolati e degradati di Parigi. Il programma prevede 10.500 mq. per cento nuovi alloggi, impianti sportivi, spazi per il commercio ed attività artigianali, parcheggi, una piazza e del verde. Come lo scultore Christo, Fuksas impacca un pezzo del quartiere, utilizzando una carta speciale: un enorme rotolo a modulo continuo per stampanti che corre parallelo al Passage Saint-Bernard. Questo si srotola, scorre in piano per un pò, penetra nei rulli della stampante in modo leggermente obliquo quasi a provocarne l’inceppamento, ne fuoriesce segnato dal test di stampa. Il progetto condivide con la proposta per la Promenade Plantée l’idea di lavorare su una copertura attrezzata che qui diviene pellicola, a cui è demandata la specifica funzione di rendere unitario un intervento di architettura che vuole essere anche una narrazione filmica che mostra i molteplici scenari in mutazione della vita del quartiere.
La continuità del segno curvilineo della sezione si traduce in una linea che risolve sia la facciata che la copertura, annullando la tradizionale linea di demarcazione tra i diversi piani. Il corpo ad onda, rivestito in lastre di zinco e contenente la residenza, viene sdoppiato in due volumi collegati da tre ponti. Da qui, in sequenza, si trovano i parcheggi interrati coperti dai campi da gioco, il volume dei servizi per le attività sportive e la palestra coperta. Gli alloggi sono costituiti da simplex e, al secondo piano, da duplex che, collegati all’adiacente volume con profilo curvilineo tramite i ponti, si sviluppano su due livelli unicamente su quest’ultimo corpo. Il salone degli alloggi occupa lo spazio dei ponti incastonati nei volumi.
La Maison de la Confluence ad Avoine Indre-et-Loire, del 1987, situata ai confini tra le regioni storiche dell’Anjou e della Touraine, dove il fiume Vienne confluisce nella Loira, costituisce un luogo di mediazione tra gli splendidi territori della regione e la Centrale Nucleare Chinon ad Avoine, la prima ad essere stata realizzata in Francia negli anni sessanta dalla Electricité de France, che decide di finanziare la costruzione di un punto di informazione per i numerosi turisti. Collocata davanti al suo ingresso, la Maison costituisce un passaggio obbligato per i visitatori della centrale ospitando, oltre ad un centro di orientamento sulle installazioni e sulle tecniche nucleari, anche un musée du nucléaire ed una sala per esposizioni.
Il piccolo padiglione vuole manifestare, attraverso l’architettura, una critica schietta alle politiche nucleari francesi degli ultimi anni. E’ come se un pezzo di crosta terrestre si fosse sradicato dal suolo sotto la spinta di un’immensa fonte di energia portando con sé tutto quello che sopra vi cresceva, erba, alberi ed un mulino a vento, e venisse mantenuto in posizione rialzata per mezzo di puntelli telescopici. Lo spazio sottostante viene completamente vetrato e attraversato da due assi costituiti da una pista orientata verso la centrale, segnata lateralmente da spot luminosi come negli aeroporti e da un corso artificiale d’acqua che scavalca il padiglione in senso longitudinale e rifornisce del prezioso liquido il mulino. Il padiglione vuole essere un luogo di riflessione sulla natura ed i sui suoi elementi, e sulla reazione nucleare che lì di fronte si consuma.
Da qui in avanti il lavoro di Massimiliano procederà separatamente dall’ormai quasi ventennale collaborazione con Anna Maria Sacconi. Lo studio Granma nel 1988 si scioglie, uno nuovo ne aprirà a Parigi e Fuksas inizia a dividere il suo tempo tra l’Italia e la Francia. Il ritmo della progettazione diviene più frenetico. C’è più forza, ci sono più stimoli, il lavoro non manca e, soprattutto, si costruisce più in fretta. Il tempo per lunghe rimeditazioni in differita sull’architettura viene a mancare e si inizia a vivere costantemente in diretta. Un progetto appena terminato possiede ancora in sé quei germi ideativi sui quali fondare il successivo, una nuova sperimentazione che, come la fenice, rinasce sulle ceneri di vecchie idee. Idee che tramite il progetto hanno potuto manifestare gran parte del proprio significato senza spesso esaurire tutto il proprio potenziale comunicativo. Da qui si riparte ogni volta, in continuità semiologica con il già detto, alla ricerca del nuovo.
Con la completa maturazione questo periodo inizia ad apparire assai più riconoscibile di quello, sia pur molto incisivo, tracciato precedentemente durante le scorribande architettoniche del basso Lazio, quando si producevano gli sconfinamenti linguistici di Paliano e Anagni. Ma il rispetto per la professione di architetto in Francia non può non catturare chiunque ami veramente questo lavoro: più di duemila concorsi l’anno strutturati in modo che non si verifichi l’inutile perdita di tempo, energie e soldi che invece caratterizza il panorama italiano. Sulla base di un curriculum, una commissione compie una preselezione, guidata sia da criteri di capacità dei candidati che dalla volontà di far lavorare tutti e poi invita quattro o cinque progettisti ad elaborare la proposta. Il vincitore realizzerà l’opera, mentre gli altri riceveranno un dignitoso rimborso spese.
Il lavoro di Massimiliano è sempre più una fucina brulicante di nuove avventure progettuali, come sta a dimostrare l’inedita iniziativa del progetto per la Torre Geindre ad Hérouville- Saint-Clair, eseguito nel 1987 ma non realizzato, dove una piccola gang di europei opera un’ideazione a quattro mani.
François Geindre, sindaco ad appena 25 anni della banlieue degli anni ‘60 di Caen in Normandia, viene a Roma in occasione di un viaggio istituzionale organizzato dall’Istituto Francese di Architettura. Fuksas lo riceve, come era avvenuto con il sindaco di Rezé. Insieme, in un bar romano, condividono l’importanza del fenomeno della densificazione per creare l’effetto della città storica. Ma come produrre ad Hérouville l’accelerazione di un processo che dura secoli, per risolvere i problemi di mancanza di centralità e di storicità della città?
I due si rivedranno ad Hérouville per visitare un’area sulla quale sono già in corso alcuni lavori e dove un centro commerciale è già terminato. Un terreno è ancora libero. Massimiliano propone di costruirvi una torre: “chiamiamo i pochi giovani architetti che contano e che conteranno e costruiamo con loro una torre fatta di strati diversi”, un caleidoscopio della nozione stessa di storia. Ed ecco i nomi: il tedesco Otto Steidle, l’inglese William Alsop e il francese Jean Nouvel. I primi due sono stati da lui conosciuti nell’Aprile dello stesso anno in qualità di membri della giuria del concorso per lo sviluppo del centro di Melun-Sénart, il terzo è un’amicizia già consolidata.
Il programma prevede dai quindici ai ventimila metri quadrati di attività commerciali con sopra spazi per uffici e, ancora più in alto, abitazioni e albergo. Alsop progetta il lungo ponte che collega la torre al centro commerciale e che contiene, oltre a negozi, anche una grande voliera. Fuksas sviluppa l’attacco a terra della torre nel cui disegno dimostra di essere già conquistato dalla poetica portuale delle gru mobili. Inoltre progetta il primo blocco degli uffici basandosi sull’uso di una superficie (la carta perforata a modulo continuo contemporaneamente in uso all’Ilôt Candie-Saint Bernard a Parigi) che inviluppa morbidamente il volume. Steidle progetta un’unità abitativa a cinque livelli posta sopra gli uffici di Fuksas che si struttura facendo uso di alloggi duplex distribuiti da un generoso spazio interno a doppia altezza attraversato da ponti. Nouvel penserà ai volumi cilindrici dell’albergo, con una e quattro stanze per piano, e alla piattaforma del ristorante, tutto collegato dall’ascensore esterno.
La torre copre una superficie di 600 mq. e si sviluppa per quaranta livelli. L’elaborazione progettuale assume un significato complesso e meccanicistico, una sorta di modulo lunare atterrato sulla terra e pronto a ripartire, ma anche una rampa mobile per il trasporto e il lancio dei missili, i cilindri di Nouvel, completamente attrezzata di uffici e residenze per lo staff tecnico e separata dalla rampa vera e propria, da una piattaforma supercoibentata per la spinta dei propulsori.
Nel 1988 il gruppo composto da Massimiliano Fuksas, Franco Zagari, Alain Marguerit, Ove Arup & Partners ed altri, vince il concorso per la valorizzazione dell’ingresso alla Grotta di Niaux famosa per i graffiti di epoca preistorica e del sito circostante. E’ il primo concorso da lui vinto in Francia ad essere realizzato. Il programma richiedeva la progettazione di un punto di accoglienza del pubblico e di un percorso di accesso che superasse i dislivelli esistenti dal parcheggio alla grotta. Lo stimolo di base è nato dal tentativo di concepire un sistema lineare con caratteristiche zoomorfe in grado di dare l’idea della totale appartenenza del nuovo organismo al luogo: un sistema organico quindi, un’architettura vivente che fuoriesce dalla propria tana: la caverna. Per i materiali si fa uso del ferro corroso dalla ruggine perché possiede una patina che non ha età. Da dietro, le grandi porte duchampiane della grotta svelano il telaio strutturale a cui sono fissate le lemiere, mettendo schiettamente a nudo il proprio apparato scenografico.
L’anno dopo Massimiliano vince il concorso per la Maison de la Communication a Saint-Quentin-en-Yvelines, edificio tecnologico sormontato da antenne, adibito agli uffici della compagnia televisiva della città. Il progetto si compone dei seguenti elementi: la gabbia in ferro e vetro color acquamarina che, passando davanti agli elementi strutturali, inviluppa tutto l’edificio; il pozzo di luce interno che illumina gli uffici fino al piano terra; il sistema delle antenne sulla copertura; l’articolazione volumetrica basata su due parallelepipedi incastrati l’uno nell’altro; una sezione cilindrica penetrante i volumi e conformante la copertura. La pianta conta sei livelli di 21 x 28 metri oltre al piano attico. Lo spazio centrale è occupato dal core, contenente le scale, gli ascensori, i bagni, i cavedi e, a piano terra, l’accesso all’edificio. Questi elementi distributivi verticali sono ruotati di 13 gradi rispetto all’involucro esterno, stabilendo un rapporto dissonante e liberatorio tra la scatola degli uffici e il vuoto centrale. Tale rotazione è percepibile da tutti i livelli grazie al pozzo di luce sul quale si affacciano gli ascensori. L’edificio rivela sobrietà e abilità nel realizzare un progetto apparentemente complesso per mezzo di metodi costruttivi e materiali semplici.
A seguito del progetto della torre ad Hérouville-Saint-Clair, l’amico Otto Steidle chiede ad Egbert Kossak, responsabile dell’assessorato all’urbanistica del comune di Amburgo, di invitare gli stessi architetti con cui sta redigendo quella proposta, ad un workshop (1987) sul ridisegno di una parte dei docks della città per ospitare il Centre Hanséatique. L’incontro sarebbe stato per i quattro sia un’opportunità per intraprendere un nuovo confronto che un’occasione per portare avanti il progetto della torre.
E’ questa un’esperienza nuova sia per Massimiliano che per Jean Nouvel i quali non avevano mai partecipato a questo tipo di laboratorio di architettura a scala urbana. Al contrario Alsop, da specialista, aggredisce il tema attraverso idee che si traducono subito in grandi rappresentazioni. Stimolato da tale sfida, Massimiliano sintetizza in un quadro lungo quindici metri e dipinto in mezz’ora la sua idea di una città tumultuosa e frammentata. Una volta finito, questo manifesto rabbioso viene tagliato in una decina di pezzi e rimontato a caso, dimostrando che la sua città non ha bisogno di riferimenti classici quali piazze, porte, obelischi, assi ecc.: “gli italiani credono che sia la compattezza a caratterizzare la città. Essi hanno in mente soltanto il modello medioevale”. Il workshop di Amburgo prevede anche una conferenza. All’inizio Fuksas fa ascoltare al buio musica tantrica senza alcun supporto verbale, poi sferra un energico attacco contro i razionalisti.
Il 2 settembre 1989 viene avviato il secondo workshop di Amburgo, che si configura come la prima fase di un concorso al quale Egbert Kossak ha invitato, oltre a Massimiliano, anche Kleihues, Ungers, Gregotti, Bohigas, Hadid, S.O.M., Graves, Valle, Price, Kees Christiaanse, Alsop e Steidle.
Fuksas arriva in ritardo di ritorno da un lungo periodo di vacanze in Giamaica e, all’incontro con Gregotti ecco la battuta: “arriva in ritardo!”, “il fatto è che ho passato un mese in Giamaica”, “un mese è tanto!”, “la prossima volta ci starò due mesi: non voglio diventare idiota a 60 anni!!”.
Inizia il progetto, si fa tabula rasa del lavoro già svolto dai collaboratori arrivati precedentemente, si comprano dischi di Bob Marley, si va al porto in cerca di un’ispirazione e di un titolo: Blue Lagoon oppure La solitudine di una gru in attesa di una nave. Si cerca il mare che non si trova, essendo la foce del fiume Elba a 120 Km. Nord-Ovest. Nella città si vedono però grandi bastimenti che sembrano navigare tra i palazzi. Questa dinamicità stupisce, affascina, funziona. E poi le grandi gru, inutilizzate, alcune obsolete ma tutte sole, in attesa di un cargo che non arriverà più. Ed ecco l’idea, che trova subito espressione in un grande quadro dal titolo La metamorfosi della gru, dove alle gru è dato qualcosa da trasportare, un grande volume vetrato rimasto sospeso a mezz’aria, sorretto da cavi d’acciaio.
Invece di passare al disegno delle piante e di altre minuterie architettoniche, come stavano facendo gli altri gruppi, loro registrano i rumori del porto e fanno diapositive per la città, organizzano materiali multimediali funzionali alla presentazione del progetto (che ai titoli precedenti aggiungerà anche quello di Duckland) facendo uso di quadri, plastici, videocassette e musiche.
A Roma il progetto viene ulteriormente definito e quindi presentato al concorso aperto a tutti gli architetti tedeschi nonché agli invitati stranieri già menzionati. Nonostante l’apparente bassa densità edilizia della proposta Fuksas rispetto alle richieste del bando, il suo progetto fu, unico non tedesco, selezionato per la seconda fase insieme ad altri quattro.
La seconda fase, come è noto, è vinta dal progetto Fuksas che, anche dopo il passaggio ad inchiostro e ai modelli architettonici professionali, mantiene e rinnova lo slancio e l’audacia dei primi segni dati a pennello sulla grande tela.
Le scocche dei cinque volumi appesi alle gru rimandano a cinque prue di navi lì stoccate come in un colossale magazzino di pezzi di ricambio per natanti ad alto tonnellaggio, in esposizione e attesa di essere montate in luogo di vecchie prue incidentate. Anche l’edificio in linea rimanda ad un linguaggio marittimo che ben si sposa con l’uso delle scocche di utzoniana memoria le quali qui si capovolgono e permettono di vedere l’acqua. L’edificio è come una grande nave in mezzo alla città, avvolto da superfici riflettenti ma che di notte si illumina e diventa totalmente trasparente. E come non pensare al Chilehaus di Fritz Hoger, il grande bastimento amburghese capolavoro dell’architettura espressionista, solennemente inserito nel cuore della città con ruolo di spartiacque urbano? Ma se nel capolavoro espressionista del 1923 la superficie carenata dell’edificio è curva in pianta ma non in alzato ed ha un partito architettonico minuziosamente affidato al dettaglio del mattone, nel nuovo bastimento sul mare la scocca diventa guscio curvo sui due assi, contenitore atto ad eliminare la facciata e con essa il suo disegno.
Di particolare interesse è il metodo del progetto che procede tutto capovolto: quadro, maquette, disegni di cui, da ultimo, le piante. Tale logica corrisponde ad una scelta di vita: “Avere idee implica integrare il concetto di errore e accettare l’errore è essenziale per poter progredire”. Libertà anche di sbagliare volutamente per poter interagire con l’errore, per trovare risposte nuove e inaspettate, per continuare ad avere idee. Senza l’errore non vi è sperimentazione ma piatta applicazione di principi e metodologie note: puro conformismo. Il progetto di Fuksas esce dall’ossessione della pianta, anche se libera, e va alla ricerca di un diverso rapporto di interazione con la contemporaneità che si esprime attraverso l’uso di forme in tensione dinamica le quali, in chiave di spoglia rivisitazione futurista, mirano ad interpretare la velocità e l’accelerazione della città del 2000.
Questa ricerca viene ripresa nel Collège Saint-Exupéry di Noisy-le-Grand, edificio scolastico per 600 allievi progettato nel 1990 e realizzato per meno di un milione di lire al metro quadrato, contenente una sala polivalente per cento persone, diverse aule, una mensa, un centro di documentazione e informazione, i servizi e l’alloggio del custode. Il complesso si configura come quattro stecche parallele formanti un pentagramma sul quale una nuova chiave musicale da luogo a uno spazio interno ovale. Tale spazio, delimitato da un percorso coperto generato dal tubaggio di una sezione carenata, unifica tutte le parti dell’intervento e si arresta sull’edificio centrale a tronco di cono capovolto su pilotis, contenente il centro di informazione e documentazione. Questo volume diventa l’elemento chiave e il punto focale della composizione: una versione moderna del tempietto di San Pietro in Montorio.
La maturità espressiva di Fuksas si realizza includendo in ogni progetto almeno un segno totalmente puro che anche qui consiste nella scocca ed è funzionale a mantenere saldo tutto l’insieme e a creare almeno un effetto speciale. Poco importa se gli altri volumi, segnatamente quelli delle aule, saranno semplicissimi, realizzati con blocchetti di cemento bianco e finestrati a nastro. Tutte le invenzioni sono concentrate nel cuore dell’intervento ed è lì che l’uragano delle idee è costantemente presente manifestando la propria intensità nella modellazione solida dei volumi. Questa composizione intestinale si basa sulle poetiche organiche e, seguendo tale logica, il collettore compie la propria missione dando nutrimento alle parti del sistema a cui è vincolato. Esaurito questo compito, oltre l’aula polivalente, il tubaggio si smaterializza per proseguire ancora qualche metro, ma solo come portico coperto da un profilo alare svettante nel cielo. Una foresteria contenente quattro alloggi duplex, caratterizzata da una doppia prua, è un oggetto puro, un battello del Mississippi che naviga una sua storia solitaria.
Questa scuola richiama le opere di Asplund, Utzon e Sharoun, facendo domanda di iscrizione nel panorama del neoespressionismo.
A Rouen nel 1990 viene bandito un concorso che ha per oggetto la trasformazione e l’ampliamento dell’edificio del XVII secolo del Convento dei Penitenti, nell’Istituto Europeo per lo Sviluppo e l’Architettura. La proposta vincente presentata da Fuksas si basa sull’uso di elementi architettonici tendenti prima a ridurre il forte impatto del volume esistente composto da quattro livelli con tipologia a corte chiusa, per poi ricomporlo smaterializzato, facendo uso di pochi elementi architettonici per lo più in metallo, legno lamellare e vetro. Gli ultimi due livelli, risalenti al XIX secolo, vengono demoliti e sostituiti da un tetto attrezzato a falde molto inclinate, tipico di questa regione della Francia, sotto al quale è contenuta gran parte della volumetria ricostruita. Il margine Ovest della corte assume la conformazione di un sottile volume virtuale smaterializzato ed aperto, formato da tre piani di ballatoio sopra un livello porticato. Questo lato vetrina diventa l’ingresso principale all’edificio, lo spazio di accoglienza e l’elemento di distribuzione. I muri di chiusura delle due testate della semicorte vengono rimossi e rimpiazzati da un curtain wall completamente vetrato che mette in mostra l’originario spessore murario e i nuovi corpi scala in ferro. Sia la nuova copertura che i solai sono sorretti da una struttura a pilotis che penetra l’edificio. Tale copertura si compone di due falde: l’esterna è opaca mentre quella interna alla corte è completamente vetrata e scandita orizzontalmente da frequenti brise-soleil con gronda incorporata.
A seguito di questi interventi il complesso ha acquisito un significato del tutto inedito, nel quale il nuovo si struttura su un organismo esistente riproporzionato, alleggerito da quelle parti meno significanti, instaurando una dialettica alla pari con l’antico per mezzo della quale tutta l’architettura ne esce rafforzata. Realizzazioni possibili in un paese dove le sovrintendenze non sono così fondamentaliste come in Italia.
Nello stesso anno altri concorsi avranno esito positivo e, come nel caso della Scuola Nazionale di Ingegneria (ENIB) e dell’Istituto Scientifico dell’Agricoltura e del Mondo Rurale (ISAMOR) a Brest in Bretagna, i progetti verranno immediatamente realizzati. Il complesso si compone di due edifici: L’ENIB ad Est e l’ISAMOR ad Ovest, organizzati linearmente di fronte al mare lagunare del capoluogo francese, avamposto nazionale ad occidente. Gli edifici sono caratterizzati dall’ormai immancabile scocca, e da lì si frantumano per proiettare tutte le parti, derivanti dai volumi originari scavati a pettine, come un’onda verso il mare. La parte posteriore è quella delimitata dalla scocca: una carenatura di lamiera ondulata sorretta da una struttura a boomerang realizzata in legno lamellare. Questa è la parte nella quale l’intervento si chiude su sé stesso, si scherma dal vento e fa penetrare al suo interno una luce controllata. Tale lato contiene i servizi e il percorso che distribuisce ai corridoi di accesso alle aule. Queste trovano collocazione nei volumi proiettati verso il mare i quali sono stratificati su due livelli tra di loro fisicamente separati. I volumi così assemblati mostrano la struttura verticale costituita da pilotis rossi in vista tra i due piani. I corpi del pettine sono tamponati in lamiera corrugata di colore metallico, compressa dai marcapiani orizzontali dei solai e delle coperture. Tra i due istituti, architettonicamente unitari ma fisicamente separati, si trovano gli spazi di accoglienza e il teatro degli studenti. La poetica del cheap metal viene rilanciata e resa nobile attraverso: il felice abbinamento della lamiera al legno; una modellazione curvilinea efficace; un’illuminazione controllata; l’esposizione degli elementi strutturali e impiantistici; uno studio articolato del volume. Tutti elementi che parlano di un controllato e sostenibile richiamo tecnologico.
Nella stessa città, due anni dopo, Fuksas vince il concorso per la realizzazione dell’UFR dell’Università di Brest. Situato in pieno centro, il complesso sviluppa 27.000 mq. che vengono articolati su diversi corpi seguendo l’idea di creare un organismo architettonico aperto alla città: un centro universitario non chiuso su sé stesso, metafora di una cittadella facilmente espugnabile perché permeabile in più punti. L’asse principale è costituito da una strada pedonale attraversata superiormente da tre ponti a due piani, coperti e completamente vetrati, i quali assicurano il collegamento tra le diverse parti del complesso. Il volume degli uffici, realizzato su pilotis, affianca il percorso pedonale e ne ribadisce la forte linearità. Il complesso è caratterizzato dall’edificio d’angolo contenente il Centro per le Ricerche Celtiche e Bretoni, a cui è demandato il compito di essere punto focale dell’intero intervento. Tale edificio, concepito su modello dei magazzini Schocken a Chemnitz di Mendelsohn, è rigato da finestre a nastro e le parti tamponate sono rivestite con una vernice protettiva di colore nero che rimanda sia alla scatola nera della mediateca di Rezé che al Willis Faber Office a Ipswich di Foster. In tutto il complesso prevale l’orizzontalità dell’impianto, interrotta da frequenti tagli verticali ed obliqui operati sui volumi, tagli che ricordano quelli inferti al muro tufaceo del Cimitero di Orvieto: una lecita rimeditazione di un’opera realizzata in altri territori, con altre finalità.
Nella consapevolezza che ogni volta che si disegna un fabbricato si progetta la città e sulla base delle esperienze parigine del quartiere popolare di Candie-Saint-Bernard nasce, in un’occasione concorsuale vincente del 1990, il forte ed energetico segno della Camera di Commercio e dell’Industria di Nîmes-Uzès-Le Vigan in Provenza. Un volume che assume la forma di un’onda del mare in tempesta la quale, con il proprio dinamismo, ribalta ogni retorica celebrazione del potere e promuove la nascita di un nuovo rapporto tra economia, industria e commercio. Per valorizzare e rendere plasticamente efficace questa intuizione, l’edificio si immerge nell’onda di copertura e da essa rimane modellato senza opporvi resistenze. Il volume è sollevato da terra e tutto il complesso è sostenuto da colonne disposte irregolarmente, spesso inclinate. Queste ultime raggiungono sempre la scocca di copertura, sia passando davanti ai prospetti che perforando il volume. L’accesso alla Camera di Commercio avviene percorrendo un piano inclinato, situato in posizione centrale all’edificio in uno spazio a multipla altezza sul quale si affacciano ponti e ballatoi che distribuiscono una superficie totale di 5.000 mq. Attraverso questo percorso si sale al primo livello dove, in corrispondenza del riflusso dell’onda, si incontra l’atrio, le scale, gli ascensori ed i servizi.
L’edificio fa parte di quelle sperimentazioni che hanno per tema l’uso di enormi superfici di copertura piegate o flesse, che sono state condotte in quegli anni per da architetti giapponesi quali Fumihiko Maki e Kiyonori Kikutake, segnatamente con il Nippon Convention Center Makuhari Messe vicino Tokio e con il Marine Cultural Center a Oita.
La rottura del concetto di continuità con la realtà preesistente scardina il principio dell’inserimento armonico del nuovo nel contesto, interrompendo quel lungo rapporto di natura dialettica proprio dell’architetto rinascimentale, illuminista e moderno, trasformandolo in una sorta di legame emblematico di una trasgressione in atto che si svolge in sintonia con i ritmi della cultura contemporanea e delle scoperte scientifiche. Ancora una Walking City, che gratifica l’amico Ron Herron poco prima della sua prematura scomparsa, un brano di città atta a risolvere il proprio rapporto con il contesto e con il cosmo in modo esoterico, proponendo un edificio che, per mezzo di un tappeto volante, cattura l’energia cosmica e, tramite mille aghi, la restituisce in modo dissonante e dinamico al luogo, ormai angolo di mondo schermato e protetto.
L’ampliamento della Facoltà di Diritto e di Scienze Economiche nel centro di Limoges è tutto giocato sulle trasparenze. L’impianto, progettato tra il 1990 e il 1993, è costituito da una superficie interamente vetrata che delimita un invaso all’interno del quale sono visibili due grandi bolle solide inserite nel ventre dell’edificio. Queste, rivestite da pannelli zincati e contenenti le aule per le lectures e per la didattica, vengono sezionate trasversalmente da un doppio muro che funge da elemento strutturale e, al contempo, distributivo. L’edificio d’angolo esistente, già Hôtel de la Bastìde, viene recuperato e inglobato nella nuova funzione universitaria. Tutto l’intervento è sormontato dalla biblioteca. L’idea di esprimere direttamente all’esterno della città il significato dell’edificio, mettendone schiettamente in vista l’organismo interno così com’è senza far ricorso al linguaggio quale mediazione tra il contenuto e l’espressione dell’opera, rappresenta il principale obiettivo architettonico. Il tentativo di evitare, per quanto possibile, di progettare facciate ovvero barriere, pellicole fittizie, trucchi e maschere tra il dentro e il fuori è, teoricamente, un modo di raggiungere quella continuità organica e neoplastica tra edificio e città, ora sempre più ricercata da Fuksas.
Le Torri per appartamenti a Francoforte sulla banchina del Meno, progettate nel 1991 per un concorso, diventano occasione di sperimentazione delle vibrazioni prodotte dai riflessi del fiume, i quali distorcono e modellano dinamicamente il volume. Ci si pone un obiettivo impossibile: quello di rappresentare, con la materia, il movimento di un riflesso nell’acqua. L’edificio sarebbe dovuto diventare la materializzazione di questo riflesso. La riduzione da quest’intuizione al progetto fa i conti con la realtà e produce una torre composta da due volumi geometrici affiancati e distribuiti da un sistema centrale, nel cui atrio interno il riflesso è rimasto prigioniero. Esso tenta di fuoriuscire lateralmente e in copertura, luogo dove si libera ad una impetuosa articolazione di superfici. La torre si compone di quattro alloggi per piano distribuiti ad ogni livello da un percorso-ponte che ricuce i due volumi dell’edificio e si affaccia sull’atrio di ingresso in uno spazio a tutta altezza concepito per rendere possibili frequenti incontri tra le persone che lo abitano, in un ambiente ad alta interazione visiva, esposto e sagomato in modo da catturare la luce, vedere il fiume Meno e la città in lontananza.
Il progetto di concorso per l’Ecole Nationale Supérieure de Mécanique et d’Aérotechnique (ENSMA) a Poitiers della fine del 1990 per la realizzazione di 20.000 mq. di attrezzature, rappresenta un tentativo di estremo interesse, anche se non é stato premiato, di indagare le qualità della forma in chiave purista. L’idea è quella di ricreare una sistema spaziale direttamente legato alle scienze tecnologiche della scuola, senza competere con la superba qualità urbana dell’antico oppidum nel quale sono presenti i resti di un anfiteatro romano oltre a numerose chiese e cattedrali romanico-gotiche.
Durante un volo da New York a Parigi, Massimiliano medita su questo progetto e abbozza le prime idee di un semplicissimo volume tagliato da una lunga fessura, all’interno del quale anche qui due embrioni vivono come due bolle d’aria: un 747 con la sua carlinga anteriormente rigonfia si trasforma in edificio. Nel mediare questa suggestione con il nuovo quartiere di Futuroscope dove è situata l’area, gli obiettivi sono semplici e minimali: stabilire una rottura con il nuovo centro del quartiere; creare un forte impatto architettonico; facilitare la costruzione del progetto per fasi; rendere magico ed articolato lo spazio interno.
L’edificio è un blocco rettangolare diviso in due da un taglio centrale che lo illumina naturalmente sino ai livelli più profondi e che penetra anche nelle due bolle tagliandone i volumi. Al primo piano ha luogo il grande atrio dal quale si accede a tutte le funzioni. Come in un aereo tutte le superfici sono carenate con una pellicola bianca metallica di forma aerodinamica che rendono il volume un oggetto neopurista.
Con il progetto per l’Unità di Formazione e di Ricerca in Diritto, Economia e Scienze Sociali a Tours del 1991 viene verificata, nella città della Turenna che conserva le reliquie di S. Martino, la fattibilità di una combinazione unitaria tra il progetto alla scala dell’architettura e quello alla scala urbana. Il programma del concorso bandito dal Ministero per l’Educazione, anch’esso non vinto, prevedeva la progettazione di un’Unità per 6.000 studenti con una mensa per 1.000 posti e una zona residenziale per 400 posti letto, un grande centro quindi da collocarsi all’estremità Est della Tecnopoli cittadina. L’idea di città che ne scaturisce viene avvolta in un’unica scocca, tagliata numerose volte permettendo alla luce di penetrare nei suoi ambiti interni: un oggetto architettonico futuribile a cui sono sovrapposti i percorsi di una città ottocentesca costruita su tracciati medioevali. La scocca assume la forma estrusa di un cilindro metallico ovalizzato di cui la parte mediana tocca il suolo e gli sbalzi sono sorretti da puntoni. Tutta la composizione ruota intorno all’idea di compattezza dell’insieme che conferisce al complesso un forte carattere urbano. Il progetto rende possibile, senza intaccare la scocca, l’illuminazione di tutti gli ambienti sia attraverso l’apertura di ampie finestrature sui lati interni dei volumi, che per mezzo della creazione di spazi a multipla altezza. L’effetto è quello di un intervento fortemente unitario e plastico che procede per successive sottrazioni da un volume geometrico originario.
Nel concorso vinto per l’Arts Centre dell’Università Michel de Montaigne a Bordeaux progettato nel 1993/94, l’intero edificio si trasforma in scultura permanente per la città della Gironda, rinomata per i suoi fiorenti vigneti. Qui il contenitore diventa contenuto: una grande scatola a pianta rettangolare assume il colore verde delle vigne ottenuto attraverso l’ossidazione del rame. Questo volume ha tre livelli ed è solcato da una fessura orizzontale e da due grandi bucature verticali. Al suo interno hanno luogo gli spazi per le diverse attività del centro tra cui un teatro, una galleria per le esposizioni, gli studi-laboratori, una saletta per le proiezioni e gli uffici amministrativi. In questo progetto l’involucro perde il valore di guscio con superfici a scocca, per assumere quello di contenitore cartesiano, dotato di una pelle sensibile che, in più punti, diventa trasparente rivelando le parti interne dell’edificio e illuminandone gli ambienti.
Il contenitore è dichiaratamente semplice perché il proprio contenuto è pullulante di idee, come sono quei luoghi nei quali si concepiscono e si realizzano sculture e opere artistiche, e quindi l’edificio non vuole esibire sé stesso in modo eccessivamente chiassoso mettendosi in competizione con i prodotti di tale concepimento, ma limitarsi ad ospitarli con appassionata partecipazione. Questo è il progetto nel quale la poetica di Massimiliano Fuksas si avvicina di più al funzionalismo minimalista di Ludwig Mies van der Rohe, al brutalismo di Marcel Breuer e al purismo di Le Corbusier.
Dopo l’Italia, la Francia e la Germania, Fuksas va in Austria dove nel 1994 vince il concorso, oggi in costruzione, per il Centro Commerciale SPAR a Salisburgo. Il titolo dato al progetto è: punto di rottura, derivante dall’omonimo film che narra la passione di un uomo per la libertà nella ricerca del limite, simboleggiata dal dominio delle grandi onde oceaniche. Con un’immensa onda di copertura larga 140 e lunga 320 metri, realizzata con un grigliato metallico che copre 120.000 mq. di superfici commerciali sormontate da sette ettari di parcheggi per 3.000 auto, una porzione di mare viene simbolicamente portata in Austria. La continuità dell’onda di copertura trova il suo contrappunto nella dislocazione frammentata dei volumi sottostanti, organizzati intorno a tre vuoti di interruzione del costruito, luoghi di accesso per la luce e pausa del pellegrinaggio consumistico. E’ come se i percorsi fossero calli di un tessuto di città medioevale lagunare e i vuoti rappresentassero altrettanti campi e campielli.
Questa poetica del ribaltamento, dove il mare sta sopra e la città sotto, era già stata sperimentata, sia pur con analogie e significati diversi, nel concorso per la Nuova Biblioteca Alessandrina al quale Fuksas partecipa nel 1989 con un progetto in cui propone una città sospesa e protetta da un’immensa copertura. Una città trasparente sotto la quale si cammina sul cielo, e alzando gli occhi si vedono le coperture degli edifici, i distacchi, le strade: “il percorso è coperto da onde trasparenti che attenuano i raggi del sole e i montacarichi trasportano alla luce i libri, la cultura del grande passato”.
Negli alloggi universitari ad Hérouville-Saint-Clair progettati nel 1993, l’idea generatrice della struttura dello spazio è costruire intorno ad un vuoto. Questo progetto è stato redatto per la stessa città nella quale quattro anni prima era stata pensata la Torre Geindre. Il lato convesso del corpo di fabbrica è caratterizzato da una parete a zig-zag che si estende su tutto il perimetro esterno. L’intero edificio è rialzato su pilotis di altezza crescente per raccordarsi al terreno degradante facendo levitare il volume.
Il progetto del Liceo Maximilien Perret de Vincennes ad Alfortville del 1995, mira ad una completa integrazione del nuovo organismo edilizio nel luogo come parte di città complessa e non come oggetto finito. Dotato di un proprio sistema di piazze, strade e spazi interni scanditi da una distribuzione dei volumi articolata e dissonante il nuovo complesso, una volta realizzato, rinforzerà i legami con il quartiere, diventando un luogo indissociabile dalla città.
Con la proposta urbanistica elaborata nello stesso anno per il Wienerbergstrasse di Vienna, risultata vincitrice della prima fase di un concorso che ha per oggetto l’utilizzazione di un’ampia area in una zona di transizione alle porte della città, Fuksas mira a creare un paesaggio urbano di matrice lecorbusieriana. L’uso di edifici che si sviluppano in altezza consente di liberare parte del terreno e di progettare un ambiente ricco di zone verdi.
Nel concorso ad inviti del 1995 per le Stazioni Tiburtina e Tuscolana in Roma viene progettato un sistema direzionale di servizio alla città che si configura, a Tiburtina, come una piastra alta quattro piani collocata sulla fascia dei binari e terminante con torri sui due lati e, a Tuscolana, come uno spazio verde a copertura dei binari, sul quale sono inseriti edifici a sviluppo verticale.
Il 7 Aprile del 1995 è Norman Foster a dare la notizia: il vincitore del concorso della Place des Nations a Ginevra è Massimiliano Fuksas! Tra gli altri in giuria è presente Bernardo Secchi, che però non ne voterà la proposta preferendogli quella di Peter Eisenman e confermando l’assunto che la sua architettura piace più all’estero che in Italia. “Non importa: tanti nemici, tanto onore”. Inoltre non era pensabile che il progetto di un irriducibile architetto italiano, tale da risultare scomodo anche alla scuola romana potesse, nella primavera del 1995, piacere ad un fiero esponente della scuola milanese.
Tra i partecipanti al concorso figurano Rem Koolhaas, Dominique Perrault e Coop Himmelblau, quindi, alcuni tra i maggiori esponenti della cultura architettonica d’avanguardia sono presenti per misurarsi su un tema con un titolo evocativo di un progetto caro e amaro allo stesso Le Corbusier. Com’è noto il maestro svizzero vinse il concorso per il Palazzo della Società delle Nazioni nel 1927/29, ma non fu incaricato per tale realizzazione perché, a seguito di torbide manovre, il progetto venne affidato a quattro architetti accademici. Avere invitato oggi a Ginevra una nutrita rappresentanza dell’avanguardia architettonica mondiale va letto come una sfida culturale in continuità con quanto avvenuto allora.
L’idea del progetto Fuksas è quella di anticipare la presenza del lago Lemano sin dall’area di intervento distante da esso circa un chilometro, con la creazione di un grande specchio d’acqua sul quale viene collocata una vasta pedana galleggiante a forma rettangolare pavimentata in legno, collegata ai bordi della vasca da una serie di sottili pontili. I nuovi edifici vengono così ad affacciarsi su un bacino idrico dando luogo ad un raro paesaggio denso di riflessi e di trasparenze che stanno a simboleggiare il raggiungimento di una sempre più prossima condizione di maturità della cultura contemporanea, di buon auspicio per una maggiore libertà negli scambi economici e culturali tra le nazioni. Anche questo progetto, come quello di Eisenman, reinterpreta, rimedita e rielabora i valori inseriti dal maestro svizzero nella sua proposta per quella città, poi rieditata per il Centro Governativo di Chandigarh. In quei progetti di Le Corbusier l’acqua gioca un ruolo determinante: nel primo, l’area è più vicina al lago che in quello della Place e il nuovo volume si interpone con la forza del proprio segno orizzontale tra l’acqua e le non lontane Alpi innevate; nel secondo, l’acqua per sua natura assente in quei luoghi, viene lì portata assumendo un profondo significato meditativo e purificatorio. Nel suo progetto, Fuksas compie una terza rimeditazione mirante a creare un surrogato di Ginevra, utilizzando gli elementi propri della città ma con nuovi significati, che evidenziano una precisa volontà di fondere gli elementi del progetto architettonico con quelli delle scale urbana e territoriale.
L’opera di Massimiliano Fuksas dirompente ed innovativa, mette efficacemente in tensione espressioni e contenuti nel progetto di architettura. Priva di cliché, la sua feconda narrazione architettonica appartiene alle poetiche combinatorie delle acquisizioni linguistiche contemporanee, cultura che egli contribuisce ad ampliare con un proprio portato semiologico attraverso il quale compie un profondo scavo personale, non immune da frequenti oscillazioni e sconfinamenti.
In ogni successiva occasione progettuale, superando con un totale azzeramento linguistico le posizioni precedentemente raggiunte, Fuksas si pone nuove mete alla ricerca di coraggiose avventure spaziali descritte con un lessico a volte ermetico, sempre incisivo ed anti nostalgico, la cui stesura è oggi in pieno corso d’opera.